lunedì 28 maggio 2018

Unione della Nobiltà Bizantina

 

Unione della Nobiltà Bizantina

 

Su iniziativa di Sua Altezza Imperiale il Principe Vladimir Gorshkov Cantacuzene (Despota di Morea, Principe di Costantinopoli, Voivoda di Valacchia e Moldavia, Principe di Transilvania e Ungheria, Principe dell'Impero Russo, ecc...), uno dei legittimi rappresentanti delle antiche dinastie sovranE dell'impero Romano d'Oriente ed eredi al trono di Bisanzio, ma l'unico, al mondo, a godere del riconoscimento ufficiale e della Alta Protezione Spirituale dei due più importanti Patriarcati Ortodossi (Ecumenico di Costantinopoli e Russo di Mosca), nasce il comitato promotore della Unione della Nobiltà Bizantina
Il giovane principe e professore Vladimir Cantacuzene (medico cardiologo, docente alla università di Mosca, uomo molto serio e religioso, impegnato nella ricerca scientifica ed in diverse attività culturali e di beneficenza), ricordiamo, con orgoglio, è tra i fondatori e membri del Comitato d'Onore di Aristocrazia Europea, e, per questo, i primi ad essere invitati ad aderire sono alcuni illustri consoci della nostra associazione internazionale: Sua Altezza Imperiale il Principe Prof. Roberto Comneno d'Otranto, Sua Altezza Imperiale il Principe Giovanni Paleologo di Bisanzio, Sua Altezza Imperiale il Principe Patrizio Tomassini Paternò Leopardi, il Nobile Loris dei Principi Castriota Skanderbegh, il Duca Costantino Agelasto Sevastopolo, il Nobile Paolo Carniglia Marulli dei Duchi di San Cesaro, ed altri amici italiani, slavi, greci, georgiani e armeni. 

La Unione della Nobiltà Bizantina, aperta a tutte le famiglie di sicura e comprovata origine, ma anche agli appassionati di queste tematiche, ai sostenitori del dialogo ecumenico fra cristiani cattolici ortientali e ortodossi orientali, ed ai benefattori della presenza cristiana in quelle martoriate terre mediorientali, sarà dipendente dalla già esistente Fondazione Imperiale Bisanzio, ente privato di interesse pubblico, soggetto di diritto internazionale, legalmente riconosciuto, che si occupa eclusivamente di storia, cultura, tradizioni ortodosse, orientali e bizantine.
 
 
Titoli e cariche, nell’Impero di Bisanzio
L’Impero Bizantino ebbe, nel corso della sua millenaria storia, un complesso sistema aristocratico e burocratico. Molti dei titoli e delle funzioni pubbliche erano puramente onofirici, in quanto l’Imperatore era il solo ed unico regnante. In oltre mille anni di storia quindi molti titoli scomparvero e vennero creati, mentre altri acquisirono o persero prestigio e potere. Agli inizi della sua storia, poiché Bisanzio rappresentava l’erede di Roma imperiale, i titoli in vigore erano gli stessi utilizzati dagli imperator romanorum, ma già con Eraclio (VII sec.) molti di essi divennero obsoleti, mentre Alessio I Comneno provvide a rinnovare completamente l’intero sistema aristocratico e burocratico dell’Impero. In seguito però, rare furono le modifiche ed i titoli e le cariche creati dal grande Imperatore rimasero pressoché invariati fino alla caduta di Costantinopoli nell’infausto anno domini 1453.
Possiamo pertanto suddividere titoli e cariche come segue:
1. TITOLI ARISTOCRATICI:
– Titoli Aristocratici Maggiori
– Titoli Aristocratici Minori
2. TITOLI MILITARI:
– Titoli dell’Esercito
– Titoli della Marina Imperiale
– Altri Titoli Militari
3. TITOLI BUROCRATICI.
I TITOLI ARISTOCRATICI
I TITOLI ARISTOCRATICI MAGGIORI
Basileos
È il termine greco che sta ad indicare il re e che originariamente si riferiva a tutti i re dei territori greci presenti nell’Impero Romano. Tale termine era usato anche nell’Impero Persiano per indicare la figura dell’Imperatore. Eraclio lo adottò in sostituzione dei titoli autokrator (colui che governa da solo) e kyrios (signore). Successivamente gli Imperatori bizantini presero l’abitudine di farsi chiamare porphyrogenitos (letteralmente nati nella porpora e cioè nati nel palazzo imperiale da un imperatore regnante, quindi, in ultima analisi, legittimi). La forma femminile è basilissa e si riferisce naturalmente ad un’imperatrice (cui andava anche il titolo di kyria e despoina). Nel corso dei secoli apparve anche il termine basilopator, un titolo puramente onorifico che stava ad indicare il “padre” dell’Imperatore (anche se il basilopator non era necessariamente il padre legittimo del monarca). Il primo uomo ad assumere il titolo di basilopator fu Zautzes, un nobile sotto il regno di Leone VI, mentre Romano I Lecapeno lo utilizzò quando divenne correggente del giovane Costantino VII.
Despotes
Il titolo di despota fu creato da Manuele I Comneno nel XII secolo e colui che era ne era insignito era secondo solo all’Imperatore. Inoltre tale titolo poteva comprendere anche una vera e propria assegnazione territoriale in amministrazione e ciò accadde soprattutto durante la dinastia dei Paleologi, quando l’erede al trono riceveva il titolo di despota e congiuntamente il despotato di Morea. La forma femminile è despoina e normalmente era portato dalla moglie di un despota.
Sebastokrator
Questo titolo fu creato dall’Imperatore Alessio I Comneno; esso deriva dalla combinazione di autokrator e sebastos ed indica unicamente la parentela con un Imperatore. Ricevere il titolo di sebastocratore non significava avere alcun reale potere né alcun ruolo del governo dell’Impero ed il primo ad esserne insignito fu proprio il fratello minore di Alessio I, il principe Isacco. La forma femminile è sebasstokratorissa.
Kaiser
Questa è la forma greca del termine latino Caesar che, nome di uno dei più grandi condottieri di Roma, indicò successivamente gli Imperatori o gli eredi al trono. Quando Alessio I Comneno creò il titolo sebastokrator, colui che portava il nome di kaiser divenne terzo in ordine di importanza e poi quarto quando Manuele I (stessa dinastia e stessa smania di creazione) creò il titolo despotes. La forma femminile è kaisarissa.
Panhypersebastos e Protosebastos
Sono questi titoli che derivano dal termine sebastos (maestà). Alessio I Comneno e i suoi successori crearono un notevole numero di titoli nobiliari e burocratici aggiungendo al titolo vero e proprio pan (tutto), hyper (super), proto (primo) e altri prefissi (in questo caso al termine sebastos).
Despota, sebastocratore, cesare, panipersevasta e protosebasta
Furono normalmente assegnati a membri della famiglia imperiale e si distinguevano l’uno dall’altro da abiti e corone differenti. In alcune occasione però, tali titoli furono concessi anche a personaggi stranieri. Il primo di questi ad ottenere il titolo di despota fu Bela III re d’Ungheria (a sottolineare il fatto che l’Ungheria era considerata uno stato tributario dell’Impero Bizantino); il primo straniero ad ottenere invece il titolo di sebastocratore fu Stefano Nemanja, principe di Serbia, cui venne concesso nel 1191. Anche Kalojan zar di Bulgaria fu insignito del titolo di sebastocratore, mentre Giustiniano II nominò Tervel, khan dei Bulgari, cesare nel 705 (tale termine evolse poi nella forma slava tsar o czar [poi zar] utilizzato principalmente in Russia [con l’avvento al trono di Ivan il Terribile] e Bulgaria). Nel 1304, Andronico II nominò Ruggero de Flor, capitano della Grande Compagnia Catalana, cesare, mentre il titolo di protosebasta fu concesso ad Enrico Dandolo, doge di Venezia (prima della sua partecipazione alla IV Crociata culminata con l’occupazione di Costantinopoli). Negli ultimi anni secoli di vita dell’Impero, inoltre, i sovrani bizantini assunsero anche i titoli di khronokrator e kosmokrator (letteralmente signore del tempo e signore del mondo).
I TITOLI ARISTOCRATICI MINORI
Sebastos
Maestà: questo titoli era originariamente equivalente ad– Augusto (o Augoustos) ed utilizzato unicamente dagli Imperatori. Dopo la creazione del titolo di protosebastos (durante il regno di Alessio I Comneno) tale titolo cadde in disuso. La forma femminile è sebasta.
Pansebastohypertatos, panoikeiotatos, protoproedros
Esempio di alcuni titoli creati aggiungendo prefissi. Questi titoli furono concessi a membri della Famiglia Imperiale dopo il regno di Alessio I Comneno e stavano ad indicare una relazione di parentela con il monarca, ma non comprendevano alcun reale potere.
Protovestiarios
Era normalmente un lontano parente dell’Imperatore, che si occupava in particolar modo del suo guardaroba, specialmente durante le campagne militari. A volte il potere del protovestiario si estendeva anche alla supervisione su alcuni membri del seguito imperiale e addirittura alle finanze personali dell’Imperatore. Il termine precedente, risalente ai tempi di Giustiniano I, era curopalate (o kouropalates in greco): esso derivava da kourator (curatore) un ufficiale responsabile degli affari economici. Il vestiarios era un ufficiale di grado subalterno. Il termine protevestiaria e vestiaria indicava naturalmente le medesime funzioni svolte al seguito dell’Imperatrice. Nell’Impero Bizantino venivano inoltre usati altri titoli nobiliari per i membri minori della Famiglia Imperiale e per i membri della piccola nobiltà, solitamente derivati da quelli latini e, pertanto, molto simili a quelli utilizzati nell’Europa Occidentale. Tali titoli erano prinkeps (principe), doux (duca) e komes (conte). Altri titoli usati erano kleisourarka, apokomes e akrita, più o meno corrispondenti ai più noti marchese, visconte e conte e barone.Alcuni membri della piccola nobiltà, infine, potevano fregiarsi di altri titoli connessi alle mansioni da loro svolte presso la Corte Imperiale, come ad esempio parakoimomenos (guardia del corpo), pankernes (coppiere) e megas konostaulos (gran conestabile). 
TITOLO MILITARI NELL'ESERCITO
  
Prefetto del Pretorio
Questo era il titolo utilizzato al tempo dei– Romani, per indicare il comandante delle truppe nella parte orientale dell’Impero. Fu abolito nel VII secolo quando ormai era caduto in disuso (in quanto non esisteva più una parte occidentale del medesimo Impero). Nell’Impero Bizantino successivo al VII secolo tale titolo evolse in quello di domestikos.
Domestikos i domestikoi
Erano in origine le guardie dell’Imperatore e solo in seguito tale titolo indicò alti ufficiali (generali) che avevano giurisdizione in un Tema. I tre specifici titoli correlati a domestikos erano:
– Megas Domestikos (Gran Domestico) il comandante supremo delle forze armate;
– Domestikos tou Scholai (Domestico delle Scholae) il comandante delle Scholae, in origine una delle più prestigiose divisioni dell’esercito, poi un Tema che forniva truppe alla stessa divisione.
Questo era uno dei titoli militari più prestigiosi che comportava anche un reale (e notevole) potere.
– Domestikos tou Thema (Domestico del Tema) il comandante (nonché organizzatore) di un Tema militare; ne esisteva uno per quelli europei ed uno per quelli asiatici.
Strategos
Era così chiamato il comandante militare di un Tema, che, normalmente, portava anche il titolo di doux. Il termine può comunque essere paragonato al nostro generale.
  • Protospatharios il comandante della guardia imperiale. Gli spatharios erano i suoi subalterni.
  • Protostrator alto ufficiale dell’esercito (titolo a volte utilizzato per indicare il comandante supremo).
  • Stratopedarch un comandante militare che poteva avere anche funzioni di magistrato.
  • Protokentarchos e kentarchos comandante di una reparto di piccole dimensioni. Tale titolo deriva dalla forma latina centurione.
  • Merarches comandante di una divisione di cavalleria.
I TITOLI DELLA MARINA
Megas Doux il Gran Duca
Egli era una sorta di Grande Ammiraglio, cui competeva il comando della flotta imperiale e l’organizzazione dei Temi navali. Il megas doux era uno delle pochissime persone che conoscevano il segreto della composizione del cosiddetto fuoco greco.
Drungarios
Subalterno del megas doux cui competeva il comando degli ufficiali della marina.
Drungarios ufficiale navale minore. A volte un ufficiale di rango– inferiore (ma con mansioni superiori al drungarios) veniva chiamato drungarokometes.
Katepanos
Così era chiamato il governatore di un Tema marittimo, titolo di cui si ha notizia solo dopo il X secolo.
ALTRI TITOLI MILITARI

Konostaulos
Era il termine greco di conestabile e rappresentava il comandante dei mercenari francesi.
Aiteriarch
Comandante dei mercenari barbari.
Akolythos
“Accolito”, il comandante delle truppe variaghe.
Spatharokandidatos
Altro titolo utilizzato per le truppe variaghe.
Manglavites
Altro titolo utilizzato per le truppe variaghe.
I TITOLI BUROCRATICI
L’imponente burocrazia dell’Impero Bizantino comprendeva numerosissimi titoli che si differenziavano sia da quelli aristocratici che da quelli militari. A Costantinopoli, in qualunque periodo della storia dell’Impero, vivevano e lavoravano centinaia, se non addirittura migliaia, di burocrati. Qui di seguito sono riportati alcuni dei titoli più noti e di uso comune, compresi i titoli che non comportavano nobiltà di sorta ma che indicavano comunque funzionari al servizio dell’Imperatore.
Protoasecretis
Uno dei più antichi titoli assegnato al capo della cancelleria imperiale, responsabile della corretta stesura ed archiviazione dei documenti ufficiali del governo. Il secretisa era un suo subalterno, proprio come il chartoularios (che si occupava dei documenti imperiali), il kastrisios (ciambellano del Palazzo Imperiale), il mystikos (una sorta di segretario personale) e l’eidikos (funzionario della tesoreria).
Logothetes
Genericamente un segretario, le cui funzioni mutavano però in base alla propria posizione ed alla specificità del proprio titolo. La carica di logoteta era comunque una della più importanti di tutta la burocrazia imperiale e comprendeva:
– Megas Logothetes (Gran Logoteta) il capo dei logoteti, personalmente responsabile di fronte all’Imperatore del sistema legale e della tesoreria, aveva funzioni molto simile ad un cancelliere dell’Europa Occidentale.
– Logothetes tou Dromou (Logoteta delle Poste) il capo della diplomazia imperiale e del “servizio postale”.
– Logothetes ton oikeiakon (Logoteta Domestico) il capo degli affari interni, della sicurezza di Costantinopoli e dell’economia della capitale.
– Logothetes tou Genikou (Logoteta Generale) responsabile delle tasse.
– Logothetes tou stratiotikou (Logoteta Militare) civile responsabile della distribuzione della paghe ai soldati.
Nel corse dei secoli il Logoteta accentrò tali e tanti poteri nelle proprie mani da riuscire ad esercitare una vera influenza sulla persona dell’Imperatore e quindi sul governo dell’Impero, ma, con il passare del tempo, tale titolo perse di importanza e si limitò quasi ad essere una carica onorifica; nel tardo impero, addirittura, il Gran Logoteta divenne un semplice mesazon cioè un responsabile dell’amministrazione imperiale.
Prefetto funzionario minore
Competeva l’amministrazione di governatorati locali.
Quaestor
Originariamente un pubblico ufficiale, il cui potere venne però drasticamente ridotto con la creazione del Logoteta.
Tribounos
Equivalente del tribuno dell’antica Roma, responsabile– della manutenzione delle strade, dei monumenti e degli edifici della capitale.
Magister (magister officiorum, magister militum)
Antico termine romano (maestro degli uffici e maestro dell’esercito) che, dal tempo dell’Imperatore Eraclio, era puramente onorifico.
Sacellarios
Durante il regno di Eraclio, supervisore (senza reali poteri) dell’amministrazione del Palazzo Imperiale.
Praetor
Originariamente funzionario che si occupava delle tasse; con l’avvento al trono di Alessio I, il termine indicò invece il governatore civile di un Tema.
Kephale
Letteralmente “capo”, governatore civile di una città bizantina.
Dragoman
Termine di derivazione turca, che stava ad indicare il traduttore facente parte del seguito di un ambasciatore.
Horeiarios
Funzionario cui competeva la distribuzione del grano contenuto nei granai dello stato.
Protoasecretis, logoteta, prefetto, pretore, questore, magister e sacellarios erano, insieme ad altri funzionari, membri del Senato Imperiale, fino a quando questo non divenne uno strumento di governo poco utilizzato dall’Imperatore.

I Principi Tomassini Paternò Leopardi di Costantinopoli...

Casa Imperiale e Chiesa Ortodossa nel segno della Tradizione


L'erede legittimo e designato della Casa Imperiale Leopardi di Costantinopoli, il NH Conte Ezra Annibale Foscari Widmann Rezzonico, insieme all'Augusto primo cugino, SAI il Principe Ser Patric Tomassini Paternò Leopardi, si sono recati in devota visita presso la Cappella Palatina di Famiglia, presso il Convento di San Serafino di Sarov, a Pistoia, incontrando S.EM. Monsignor Silvano Livi, Vescono di Luni ed Esarca (per l'Italia) della Santa Chiesa Greco Ortodossa Tradizionale e Gran Cappellano della Casa Imperiale e degli Ordini Dinastici. Ad accompagnare i due cugini, nipoti consanguinei del compianto Augusto Principe Zio, SAI Hugo Josè, sono stati il Primo Consigliere, Barone Roberto Jonghi Lavarini, ed il Segretario Generale, Cavaliere Simone Gambini. La Santa Chiesa Bizantina e l'Augusta Casa Imperiale Heracliana Giustinianea, eredi della Tradizione del Sacro Romano Impero Costantinopolitano d'Oriente, hanno confermato e rinnovato ufficialmente la loro plurisecolare alleanza e collaborazione, nel segno della Fedeltà a San Basilio, Santa Sofia e San Costantino il Grande



martedì 15 maggio 2018

L'Imperatore Giovanni VI Cantacuzeno

Andronico II Paleologo regnava da ormai quasi quarant’anni su un impero in profonda crisi, ma tutto pareva, sia pure tra poche luci e molte ombre, proseguire stancamente verso un futuro relativamente stabile, tanto più che la minaccia catalana era stata deviata verso altri lidi. Il sovrano regnava, suo figlio Michele IX era erede designato e dopo di lui sarebbe asceso al trono il nipote Andronico III, che, adorato dal nonno, era stato da lui nominato coimperatore nel 1316.
Il Gran domestico ed il suo Imperatore
Ma la situazione cambiò presto: il giovane principe fremeva, il suo desiderio di incidere diversamente sulla vita statuale ed i suoi atteggiamenti lo portarono in conflitto con la corte e, nel 1321, dopo un incidente che causò la morte del fratello, con la conseguente scomparsa del padre, Andronico III venne privato del diritti alla successione. Non accettò passivamente la decisione del nonno: in breve raccolse l’adesione di molti amici influenti, tutti rappresentanti della ricca e nobile aristocrazia terriera, e, dalla Tracia, ove era la maggior parte dei possedimenti di costoro, Andronico marciò verso la capitale. Il vecchio imperatore capitolò e concesse la Tracia al nipote. Ma la tregua fu breve.
Tra i sostenitori di Andronico III spiccavano Sirgianni, legato per motivi familiari ai Paleologi, che ottenne il titolo di megaduca, e Giovanni Cantacuzeno, che divenne megas domestikos . Costui, nato tra il 1295 ed il 1296, era di nobile famiglia di grandi proprietari terrieri, e possedeva estese proprietà in Tracia, Macedonia e Tessaglia. Suo padre, Michele, imparentato con i Paleologi e gli Angeli, aveva beneficiato della nuova suddivisione dei territori dell’Impero attuata da Andronico II ed aveva governato da signore feudale la Morea dal 1308 fino alla morte, nel 1316, quando gli era successo Andronico Asen, figlio di Ivan III Asen di Bulgaria e della sorella del basileus. E Giovanni Cantacuzeno aveva sposato proprio la figlia di Andronico Asen, Irene. Comunque Giovanni legò la sua vita a filo doppio con il nipote del basileus e quando Sirgianni lo abbandonò gli restò fedele, giungendo così alla incoronazione a coimperatore di Andronico III nel febbraio del 1325: mai come ora i poteri vennero divisi, e, sendo taluni, fu in quest’occasione che venne adottata l’aquila a due teste. Anche in quest’occasione la tregua durò poco e, mentre i Turchi di Orkhan a forza di dar spallate all’indebolito impero occupavano Brussa e ne facevano la loro capitale, Andronico II cercava l’appoggio della Serbia per cacciare Andronico III. Il quale rispondeva cercando l’appoggio del cognato Michele III di Bulgaria e, al suo fianco, batteva il nonno e occupava la Macedonia e Tessalonica. Il 24 maggio del 1328 Cantacuzeno ed Andronico III entravano a Costantinopoli, quest’ultimo veniva incoronato imperatore ed il vecchio Andronico II, pur conservando il titolo, abdicava alle funzioni. Due anni dopo si sarebbe ritirato in un monastero, per poi morire nel 1332.
il nuovo imperatore dispiegò subito una notevole energia, sia pure proseguendo sulla via tracciata dai predecessori, e molta -se non tutta- quest’energia proveniva dal suo gran domestico, il Cantacuzeno. Venne varata una riforma giudiziaria, che riunì la materia nelle mani di 12 giudici supremi dei Romei, poi ridotti a 4, e si cercò di ovviare alla debolezza militare dell’impero, tra l’altro prevedendo la creazione, spesso con fondi privati, d’una flotta, destinata a svincolare i Romei dalla soffocante tutela genovese. Ma i problemi più pressanti arrivavano da fuori: nel 1331 Stefano Dusan saliva al trono serbo e, seguendo un programma di renovatio imperiale serba, attaccò la Macedonia romea, giungendo fino alle mura di Tessalonica, dopo essersi alleato con il sovrano bulgaro Ivan Alessandro. Ad oriente i Turchi di Orkhan assediavano Nicea, e contro di loro Andronico e Giovanni mossero guerra, subendo però una sconfitta presso Filocrene nel 1329. Il 2 marzo del 1331 Nicea, fino a sessant’anni prima centro della resistenza romana, sarebbe caduta in mano ottomana. A quel punto il basileus e Giovanni cercarono, e trovarono, l’alleanza con gli emiri turchi selgiuchidi timorosi della potenza ottomana: con l’appoggio delle flotte turche venne tolta Chio ai genovesi Zaccaria, venne occupata Focea in Asia Minore e liberata Lesbo, attaccata da forze genovesi. E la ripresa pareva solo all’inizio: se falliva una Lega cristiana contro i Turchi promossa dalla Francia, dal Papa Giovanni XXII, dai Cavalieri di Rodi e da Venezia, cui ovviamente fece parte anche Costantinopoli, i successi di Andronico e Giovanni in Grecia parvero esaltanti. Presto la Tessaglia venne annessa all’Impero, fino ai confini del ducato catalano, e nel 1337, morto il despota Giovanni, Cantacuzeno ed il basileus conquistarono l’Epiro e l’Acarnania, affidandoli al protostrator Sinadeno. A seguito di una ribellione fomentata alcuni anni dopo, Giovanni Cantacuzeno offrì la mano della propria figlia, Maria, al figlio dell’ultimo despota epirota, Niceforo II.



Il tutore
Ancora giovane, Andronico III morì il 15 giugno del 1341. Dal momento che l’erede legittimo, Giovanni V, aveva solo 9 anni, e poiché sotto Andronico il vero sovrano era stato lui, al Cantacuzeno parve naturale assumere la reggenza. E come reggente si comportò, fermando i Turchi, battendo i Serbi e contenendo i Bulgari, anche assumendo truppe a proprie spese. Ma il passaggio di poteri non fu così pacifico come il gran domestico prevedeva: mentre era in Acaia, a rivevere quel territorio dai suoi dignitari, a Costantinopoli la vedova di Andronico, Anna di Savoia, il patriarca Giovanni Caleca e l’oscuro Alessio Apocauco decisero di estrometterlo, assumendo essi stessi la reggenza. Si scatenò la guerra civile. Complicata da un ulteriore fattore esplosivo, la polemica sull’ esicasmo .
Questa dottrina, derivante il suo nome da esichìa, pace interiore quale premio per la contemplazione, nasceva da antiche correnti di misticismo monastico, e si fondava su una tendenza mistico-ascetica che aveva il suo fine nella vista della luce divina. Il teologo athonita Gregorio Palamas elaborò le dottrine teologiche esicastiche fondamentali, cui si opposero il monaco calabro Baarlam e Acindino. Erano dunque nate due tendenze, l’una aperta alla scolastica occidentale, ed unionista, l’altra più legata al misticismo ed alla religiosità nazionale. Vincerà la seconda, legata a Palamas. Comunque già nel 1341 si tennero due concili e le tendenze assunsero valenze politiche: poiché il Cantacuzeno era vicino agli esicasti di Palamas, nonostante le perorazioni di Niceforo Gregora Baarlam vinse, perché appoggiato dal patriarca Caleca. Questa situazione era inoltre complicata da alcuni altri fattori, sapientemente manovrati dai detrattori del reggente, in particolare la sua appartenenza all’aristocrazia, la sua vicinanza ad ambienti monastici ed antiunionisti e le sue aderenze con emiri turchi: Gregora, ad esempio, racconta con orrore dell’estrema liberalità con la quale gli infedeli si muovevano a palazzo, e del resto il Cantacuzeno parlava turco e ben conosceva le usanze straniere.
Giovanni Cantacuzeno non si diede per vinto, ed il 26 ottobre 1341 si fece proclamare imperatore a Didimotico. Non usurpò il trono: la sua posizione sarebbe stata subordinata a quella di Giovanni V e di Anna di Savoia, che sarebbero restati sovrani legittimi. Ma tale azione nulla giovò. e a rendere ancora più convulsa la situazione ci pensò Tessalonica che, caduta nelle mani degli “zeloti”, esponenti d’un movimento popolare ed antiaristocratico, si rese pressoché indipendente, ancorché retta da un comitato congiunto di zeloti e Paleologi legati a Apocauco. In effetti la rivolta di Tessalonica era l’indicatore di una tensione sociale altissima, ben testimoniata ad esempio dal noto Dialogo tra i ricchi ed i poveri del contemporaneo Alessio Macrembolite. A quel punto il Cantacuzeno, disperato, si rivolse ai serbi e ne ottenne l’alleanza. La Tessaglia lo riconobbe imperatore, e fu un primo risultato, ma Stefano Dusan cambiò idea e si rivolse ad Apocauco. Al Cantacuzeno non restò che allearsi ad Umur, turco emiro di Ajdin, ed in seguito con l’ottomano Orkhan, cui diede in moglie la figlia Teodora. E scoppiò più forte che mai la guerra civile, che vide i Turchi, i Serbi ed i Bulgari approfittare delle lotte tra i pretendenti al trono romano per divorare i resti del suo Impero. Nel frattempo Apocauco moriva, Anna di Savoia nella speranza di ottenere l’aiuto di Venezia le cedeva i gioielli della corona e, per dirimere la crisi esicastica, deponeva Caleca e faceva eleggere patriarca un seguace di Palamas, Isidoro. Fu tutto inutile: Giovanni Cantacuzeno, che si era fatto incoronare finalmente primo imperatore ad Adrianopoli dal patriarca di Gerusalemme nel 1346, l’anno dopo, entrato a Costantinopoli e deposta la reggenza, fece ripetere la cerimonia, il 13 maggio, dal patriarca della capitale. Anche in quest’occasione comunque vinse il legittimismo, e Giovanni V ed Anna conservarono il titolo. Anzi, al primo Cantacuzeno diede in isposa una sua figlia, Elena.


L’Imperatore
Le guerre civili avevano distrutto l’impero, e Giovanni VI nulla potè fare. Nel 1346 Stefano Dusan aveva assunto il titolo di Imperatore dei Serbi e dei Romani, e in breve rese vani tutti gli sforzi di Andronico III e di Giovanni VI, conquistando Macedonia, Tessaglia, Epiro. Genova riconquistava Chio. Tra il 1347 ed il 1348 la Morte Nera avrebbe seminato morte e distruzione, colpendo l’Impero, più popolato ed urbanizzato, in modo maggiore rispetto ai suoi vicini, annullando quel po’ di fiducia e di ripresa che poteva essere rimasta. Allo stesso Cantacuzeno, così racconta lui stesso, venne portato via un figlio, Andronico. Le uniche soddisfazioni le ebbe dalla fine della rivolta degli zeloti a Tessalonica, nel 1350, e dalla vittoria dell’esicasmo, dichiarato dottrina ortodossa alle Blacherne nel 1351: ovviamente ciò non pose fine alle polemiche, poiché Baarlam e Acindino vennero scomunicati, e Niceforo Gregora, che, nel frattempo, aveva mutato d’avviso, venne confinato nel monastero di Chora. Non potendo far finta di nulla, Giovanni VI tentò comunque di far fronte al disastro. Cercò appoggi internazionali, ad esempio rinnovando, dopo lungo tempo, trattati con l’Egitto mamelucco, chiese l’aiuto dell’aristocrazia e, soprattutto, abbassò le tariffe doganali della capitale perché divenissero concorrenziali con quelle della genovese Galata. Non pago, cercò d’impedire la frettolosa concessione della cittadinanza veneta, che esentava fiscalmente, e attuò una politica protezionistica in materia commerciale. Il rafforzamento delle mura e il ripristino della flotta prefiguravano una reazione delle potenze marinare che non si fece attendere: le navi genovesi annientarono l’inesperta flotta romea. Giovanni fece incendiare il quartiere di Galata, e la guerra fu fermata solo dai plenipotenziari genovesi, che diedero ragione al basileus, il quale ricevette 100.000 iperperi d’indennizzo. Ma in breve la guerra si sarebbe spostata tra Genova e Venezia. Quest’ultima chiese l’intervento di Giovanni, che si decise solo tardi ad intervenire. e mal glie ne incolse, poiché l’ammiraglio veneziano, un inetto, lasciò solo i romei nella battaglia contro i genovesi. Sconfitto, Giovanni nel 1351 fu costretto ad una pace separata con Genova, e questo provocò un raffreddamento con Venezia. Ne approfittò Giovanni V che, cresciuto, mal sopportava la sua posizione. Egli offrì l’isola di Tenedo ai veneziani in cambio dell’appoggio e di 20.000 ducati. ll Cantacuzeno, per tranquillizzare il giovane imperatore, gli offrì la Tracia, lasciando al figlio, che ne deteneva l’appannaggio, la città d’Adrianopoli: il risultato fu una guerra tra Giovanni V e Matteo Cantacuzeno! Riprese la guerra civile, che vide Giovanni VI appoggiato da Orkhan e Giovanni V da Serbi e Bulgari. Solo ora Giovanni Cantacuzeno si decise a dismettere ogni finzione, ed il figlio Matteo veniva incoronato coimperatore. Con l’aiuto turco Giovanni V veniva battuto ed esiliato a Tenedo, nel 1353. Purtroppo ogni successo era destinato ad avere frutti velenosi. Il patriarca Callista protestò per la defenestrazione dei Paleologi, per cui venne deposto e sostituito dal più mansueto Filoteo. Inoltre, a seguito d’un disastroso terremoto che l’aveva spopolata, Gallipoli venne occupata dagli Ottomani di Suleiman, figlio di Orkhan, e, nonostante le insistenti richieste del Cantacuzeno, in modo permanente.

Il monaco
Era troppo. Il Cantacuzeno aveva forse tardato troppo, ed ora era troppo tardi per i suoi progetti. Aiutato dal genovese Francesco Gattilusio, cui promise la sorella e l’isola di Lesbo, Giovanni V fuggì da Tenedo e raggiunse Costantinopoli, nel novembre del 1354. Stanco, Giovanni VI abdicò il 4 dicembre dello stesso anno, e si fece monaco, con il nome di Joasaph.
La storia dei Cantacuzeni tuttavia non terminò, né Joasaph sparì nel nulla: Matteo Cantacuzeno continuò, ancora fino al 1357, a dominare il territorio attorno ad Adrianopoli, finché non raggiunse la Morea, e questa regione rimase in appannaggio all’altro figlio di Giovanni, Manuele, fino al 1380, quando gli successe lo stesso Matteo. Solo alla morte di quest’ultimo, nel 1382, Teodoro I, figlio di Giovanni V, riportava la Morea ai Paleologi. Lo stesso Giovanni Cantacuzeno non lasciò l’agone politico e fu, fino alla morte, avvenuta nel 1383, l’eminenza grigia dell’impero, tra i monasteri dell”Athos, della Morea e di Costantinopoli. All’epoca dei preparativi per il viaggio di Giovanni V in Occidente, in vista dell’unione delle Chiese, Joasaph fu il portavoce della Chiesa ortodossa, nel 1367, e chiese a gran voce che l’unione fosse sancita da un concilio ecumenico tenuto a Costantinopoli, invano. E ancora anni dopo, nel 1376, il delegato veneziano Marco Giustiniani aveva l’ordine di trattare con il Cantacuzeno, ritenuto più saggio ed affidabile degli imperatori regnanti.

Epilogo
Venne sepolto a Mistrà, la capitale di quella Morea in cui aveva trascorso metà della sua vita. Tuttavia i monaci di Vatopaidiou, nell’Athos, sosterranno sempre di accogliere, nel Katholikon di quel monastero, le spoglie di colui che tanto li aveva beneficati. A noi della sua opera restano trattati teologici e polemici a difesa del palamismo, nove discorsi contro gli Ebrei e, soprattutto, i quattro libri della Cronaca, la storia dell’impero dal 1320 al 1356, narrata in terza persona da tal Cristodulo, un’opera che narra in maniera avvincente le sue imprese ed il suo regno, non senza tendenze elogiative ed apologetiche, ma con valore narrativo, storico e letterario indiscussi.

Djuri c I., Il Crepuscolo di Bisanzio, Roma, Donzelli
Guillou A., L’Impero bizantino, Torino, UTET
Nicol D., Venezia e Bisanzio, Milano, Rusconi

"La Tavola di Bisanzio"...


La Tavola di Bisanzio è un evento culturale che, partendo dalla geografia e dalla storia di questo territorio, *** ne raccoglie le testimonianze, le studia, le “mette in valore” per restituire ai luoghi e agli uomini che li abitano, la coscienza di sè e l’orgoglio del proprio passato.
Qui, in questa parte di Appennino Reggiano, c’è un monte che si chiama Valestra, citato da Virgilio, per via di una bella leggenda che racconta di un tesoro difeso da un gigante di nome Balista; e ci sono terre ricordate da Livio e da Paolo Diacono nelle loro Historie che narrano di eserciti romani alla conquista dell’Appennino. Lungo il crinale di questo monte e poi giù giù lungo la valle del Tresinaro, passava il limes che segnava il confine tra il castrum Verabulum (Bizantino, che faceva capo a Ravenna) e il castrum di Bismantova (che faceva capo ai Longobardi). Per due secoli almeno, (VII e VIII d.c.) nel cuore del medioevo più alto e più profondo, si sono “fronteggiati” (ma anche riconosciuti e intrecciati) due popoli e due civiltà. Nelle terre del Verabolo i Bizantini hanno lasciato la loro storia e i loro nomi, i loro templi e i loro santi (San Vitale), i loro soldati e i loro figli… ma anche i loro usi e i loro gusti (l’allevamento della pecora, la pastorizia…). Una piccola ma precisa e ben riconoscibile identità. Qui la civiltà di Bisanzio ha lasciato i suoi sapori e in questi luoghi, unici in Appennino, ancor oggi a distanza di dodici secoli si consuma (abitualmente) carne di pecora.
Per questo La tavola di Bisanzio è innanzi tutto un banchetto, una tavola apparecchiata, generosa e cordiale: con i rosticcini e le costine di agnello, la pecora bollita e il caratteristico violino, stagionato nelle cantine, le profumatissime barzigole, preparate per tempo in una concia antica.
Ma La tavola di Bisanzio è anche un convito, proprio alla maniera del Convivio di Dante, una “tavola rotonda” di saperi e di studi, un luogo di ricerche e di piccole scoperte, una occasione di dialogo e di raccolta di ogni utile testimonianza. In sostanza un richiamo per chi ha, come noi, qualcosa di Bisanzio nella storia e nel cuore.
Dalle pergamene e oltre le pergamene, dalle scoperte archeologiche e oltre le scoperte archeologiche…; i ristoratori della valle del Tresinaro accompagneranno i visitatori alla riscoperta dei piatti di pecora adulta e delle ricette rare a cui gli abitanti (uomini e donne) sono rimasti fedeli per generazioni. Gli studiosi potranno aprire prospettive nuove sui secoli di un medioevo pressoché sconosciuto, di cui questi luoghi di Appennino sono stati teatro e scena.
Sapori e saperi, perché l’identità di una terra passa anche attraverso la storia dei suoi cibi e il piacere di ritrovarli: anche nelle parole che li raccontano.
*** si dà per acquisita la informazione sulla sede geografica dell’evento: comune di Baiso, provincia di Reggio Emilia, Appennino Reggiano - Clementina Santi

Santa Sofia, tra il Cristianesimo e l’Islam


L’Islam e il Cristianesimo si sposano a Hagia Sophia, la Santa Sapienza che distilla ancora i tre nomi della grande e misteriosa città: Bisanzio, Costantinopoli e Istanbul svelano la loro storia dentro una immensa e straordinaria basilica.
Un luogo da sempre simbolo della capitale d’Oriente: prima chiesa bizantina, poi moschea ottomana (1453-1935) e poi, per volontà del presidente Ataturk, museo nazionale della repubblica di Turchia.
Il 27 dicembre dell’anno 537, fu il gran giorno della consacrazione della basilica. Davanti a tanta bellezza, l’imperatore Giustiniano non trattenne l’orgoglio di chi sapeva di poter parlare ai secoli: “Gloria a Dio che mi ha fatto degno di questo! Ti ho superato, oh Salomone!”. E ordinò quattordici giorni di festeggiamenti, che furono accompagnati da pubbliche elargizioni di denaro, feste, musiche e celebrazioni che coinvolsero tutti gli abitanti della grande città.
La cupola, costruita mille anni prima di quella di San Pietro a Roma, apparve come un prodigio di eleganza e di leggerezza: 30 metri di diametro e 56 di altezza, con la volta argentea, rivestita all’interno da migliaia di tessere di lucenti mosaici.
Forse Giustiniano quel giorno pensò a Costantino che per primo, nel vasto spazio poco lontano dal palazzo imperiale, volle costruire la prima cattedrale della sua nuova capitale. Ma non fece in tempo a vedere la fine dei lavori che aveva ordinato.
Fu il suo successore, Costanzo II, nel 360, a consacrare e ingrandire il tempio che divenne la chiesa episcopale di Costantinopoli. Poco dopo, la distrusse un incendio. Ma Teodosio II la riconsacrò nel 415. Fu di nuovo incendiata, con gravi danni, durante la rivolta di Nika.
Finché Giustiniano, nel 532, si impegnò a ricostruire una basilica nuova. Nei suoi sogni doveva essere la “più sontuosa dall’epoca della Creazione”. Riuscì nell’impresa: in soli 5 anni, il famoso architetto Isidoro di Mileto e il matematico e fisico Artemio di Tralle, assistiti dallo stesso imperatore, portarono a termine l’opera, per la quale fu necessario il lavoro di diecimila operai.
Preziosi materiali vennero raccolti in ogni parte del vasto impero: marmi verdi dalla Tessaglia, pietre nere dalla regione del Bosforo e grandi pietre gialle dalla Siria. Otto colonne di porfido giunsero dal Tempio di Giove Eliopolitano di Baalbek. Colonne di granito arrivarono dall’Egitto. E altre otto colonne ellenistiche furono trasportate dal tempio di Artemide di Efeso. I rossi mattoni di Rodi, composti da una argilla particolarmente leggera, servirono per costruire la spettacolare cupola. Ogni pezzo riportava la medesima scritta: “È Dio che l’ha fondata, Dio le recherà soccorso”.
Tanta fede serviva per le sacre incoronazioni dei reali bizantini e per ospitare degnamente la sede del patriarca ortodosso di Costantinopoli.
Ma le iscrizioni devote nulla potettero contro una serie di terremoti che indebolirono e lesionarono a più riprese la costruzione. Tanto che durante il sisma del 7 maggio 558, la cupola crollò e distrusse l’ambone, l’altare e il ciborio della cattedrale. Ci vollero altri cinque anni per riaprire la basilica al culto (563) e per ricostruire una cupola nuova, più leggera, più alta di 6 metri e protetta da massicce muraglie di sostegno.
Nei secoli, seguirono altri crolli e altre ricostruzioni. Fino agli anni della Quarta crociata e al saccheggio delle reliquie che il tempio subì nell’anno 1203: la Sacra Sindone, una pietra della tomba di Cristo, il latte della Vergine Maria e le ossa di numerosi santi vennero trafugate e abbellirono diverse cattedrali d’Europa.
Hagia Sophia fu trasformata in una chiesa cattolica fino alla “riconquista bizantina” del 1261. Ma il tempio era ormai gravemente danneggiato e fu chiuso dopo nuovi crolli a cui seguirono altri restauri.
Poi, per quasi cinquecento anni, la basilica diventò la grande moschea di Costantinopoli. Nel 1453 Maometto II promise ai suoi soldati tre giorni di libero saccheggio se la grande città, capitale dell’impero d’Oriente, fosse caduta. Il giorno stesso della capitolazione, le porte di Santa Sofia vennero abbattute. E il saccheggiò iniziò.
Lo interruppe il sultano che ordinò la trasformazione della chiesa in moschea. Quando uno degli ulama che era con lui, salì sul pulpito e iniziò a recitare la Shahada, nacque, di fatto, Aya Sofya. Il grande luogo di culto fu di nuovo restaurato. Scomparvero le croci, i mosaici parietali vennero intonacati e ai lati dell’edificio, negli anni successivi, furono costruiti, a più riprese, dei minareti.
Il patriarca si trasferì nella Chiesa dei Santi Apostoli.
Aya Sofya fu abbellita da due colossali colonne che nel XVI secolo il sultano Solimano il Magnifico (1520-1566) riportò dopo la conquista dell’Ungheria. Gli abbellimenti e i restauri continuarono per altri trecento anni, fino ai grandi lavori ordinati dal sultano Abdul Mejid I e completati in soli due anni, tra il 1847 e il 1849, sotto la direzione dell’architetto ticinese Gaspare Fossati, assistito dal fratello Giuseppe, ingegnere. La grande cupola e le volte vennero consolidate. Alle colonne furono appesi quattro giganteschi medaglioni circolari, che riportano i nomi di Allah, del profeta Maometto, dei suoi due nipoti e dei primi quattro califfi (Abu Bakr, Umar, Uthman e Ali). Gli antichi mosaici bizantini vennero scoperti e poi ricoperti con uno strato d’intonaco. E nuovi lampadari a goccia sostituirono le vecchie illuminazioni.
Il museo nazionale ricorda questa e altre vicende. Hagia Sophia è un sontuoso libro d’arte e di storia.
Le sue gigantesche proporzioni ne fanno uno dei monumenti dell‘architettura più importante di tutti i tempi. Nella pianta della grande basilica, come in un disegno divino, le figure geometriche del quadrato e del rettangolo si fondono in modo armonioso. La grandiosa innovazione, mai utilizzata in precedenza, dei quattro pennacchi che sostengono e innalzano la cupola, permette un passaggio elegante dalla forma quadrata della base dei piloni a quella sferica che sovrasta l’edificio, quasi a dominare lo spazio.
Lo sguardo corre verso l‘alto, dove tra le ombre e i chiaroscuri compare l’immagine dello stemma imperiale di Giustiniano.
Tra mosaici, marmi di pregio, pannelli, colonne in porfido e capitelli scolpiti, si arriva al grande vano della navata centrale.
Procopio di Cesarea, nel suo trattato “De aedificiis”, raccontò l’effetto mistico di una luce che sembra generata dalla basilica stessa: arriva filtrata, a ogni ora del giorno dalle quaranta finestre che costeggiano la cupola e dalle altre aperture disposte a livelli diversi sulle grandi pareti di Hagia Sophia.
Una luce che si riverbera sui mosaici dorati e sui preziosi paramenti. E che sembra quasi annullare la consistenza e il peso stesso delle strutture. Ma che nei secoli ha continuato a illuminare la chiesa ortodossa orientale, quella cattolica romana e il vasto mondo musulmano.
Federico Fioravanti

Romanzo storico "Gli amanti di Bisanzio"...



Gli amanti di Bisanzio è un grande romanzo storico sugli ultimi giorni di Costantinopoli, in cui una storia d’amore si fa racconto e simbolo dell’eroica resistenza di una città, prima della caduta dell’Impero Romano d’Oriente.
È il 1452 quando Johannes Angelos arriva a Costantinopoli. Letterato, mistico, avventuriero, la sua vita è stata un perenne errare, dal Palazzo dei Papi di Avignone al Concilio di Basilea, dalla ricca Firenze all’ultima crociata, fino a un posto d’onore alla corte di Maometto II. Ma rispondendo al richiamo del destino e delle sue segrete origini, rinuncia a tutto per andare a difendere Bisanzio dai turchi. È lui stesso a raccontare nel suo diario l’epocale assedio, l’impotenza di un popolo che assiste al crollo delle sue mura millenarie, l’agonia di un impero ormai snaturato dagli intrighi di potere tra greci e latini, la timorata lealtà di Costantino XI contro l’astuzia machiavellica del Sultano. Pronto ad affrontare la morte certa, l’ultima cosa che Angelos si aspetta è di trovare l’amore tra le braccia di Anna Notaras, l’intoccabile figlia del temuto megaduca. Un amore tempestoso come la battaglia che imperversa sui bastioni e impossibile come il futuro dell’ultima Roma. Scritto all’indomani della Seconda guerra mondiale, Gli amanti di Bisanzio è il monumentale affresco del tramonto di un’epoca. Racchiudendo in sé la fede, gli ideali e gli universali di un’antichità che ha saputo conciliare Oriente e Occidente, Angelos è destinato a soccombere a un nuovo tempo in cui la materia ha il sopravvento sullo spirito, la legge economica su quella morale, il calcolo sulla passione: la fine dell’età di dio e l’avvento dell’età dell’uomo.

Mostra "Frammenti di Bisanzio" a Ravenna


Si chiama “Frammenti di Bisanzio” la mostra dell’81enne artista milanese Umberto Mariani che è stata inaugurata al Museo Nazionale di Ravenna.
Curata da Giovanni Granzotto e organizzata da “Il Vittoriale degli Italiani” di Giordano Bruno Guerri con la collaborazione della Galleria dell’Accademia di Torino, resterà allestita fino al 17 giugno.
Saranno 50 le opere “panneggiate” del maestro Mariani esposte al Museo. «Ho trovato il mio panneggio assimilabile a quello bizantino – sono le sue parole –. Per questo ho intitolato la mostra così. È un panneggio stilizzato, geometrizzato ma allo stesso tempo plastico. Le mie pieghe non hanno nulla di veristico e di reale, si avvolgono di forme e significati simbolici. Il panneggio è parte integrante della storia dell’arte, è sempre stato presente. Dai Greci fino alla fine del ‘700 e poi con me. Chi non ricorda il panneggio mosso dal vento della Nike di Samotracia?».
La vita dell’artista, che per un lungo periodo si è avvicinato alla Pop Art, diventando un esponente di rilievo, è stata condizionata da un senso di ribellione nei confronti della tradizione americana. Per questo, con le sue opere aspira a ripresentare nel panorama artistico quei valori spirituali che sono stati cancellati. «Con orgoglio mi reputo partecipe e co-protagonista del “Made in Italy”. Adesso nei lavori che faccio voglio accomunare bellezza e bontà. Siamo purtroppo arrivati ad una celebrazione semplicistica del consumismo, a scimmiottare altre culture. Non avendo un passato, gli americani, adorano il presente e noi europei ci siamo adeguati a questa regressione di civiltà. Un fatto che fa ridere e anche piangere. Ci siamo adeguati alla cultura americana. Senza storia, senza passato».
«Ospitare al Museo Nazionale di Ravenna Umberto Mariani attraverso una scelta appropriata di sue opere – commenta la direttrice del museo Emanuela Fiori –, rappresenta un ulteriore passo di approfondimento delle profonde connessioni, non solo estetiche, che legano l’età Tardoantica all’Arte Contemporanea. Costante fonte d’ispirazione per il presente, archetipi ai quali rivolgersi, le forme simboliche a-prospettiche dei mosaici bizantini rivivono con una ritrovata volumetria nei drappeggi geometrici di Umberto Mariani  che, come in antico “celano le forme” e divengono protagonisti assoluti dello spazio circostante. Drappeggi geometrici, declinati in materiali diversi assumono nelle creazioni del maestro una valenza d’infinito. Essi racchiudono nella propria eleganza l’idea del bello, che è tensione costante verso l’armonia e la dignità, valori fondamentali per l’uomo che la società contemporanea troppo spesso tende a dimenticare».