martedì 15 maggio 2018

Santa Sofia, tra il Cristianesimo e l’Islam


L’Islam e il Cristianesimo si sposano a Hagia Sophia, la Santa Sapienza che distilla ancora i tre nomi della grande e misteriosa città: Bisanzio, Costantinopoli e Istanbul svelano la loro storia dentro una immensa e straordinaria basilica.
Un luogo da sempre simbolo della capitale d’Oriente: prima chiesa bizantina, poi moschea ottomana (1453-1935) e poi, per volontà del presidente Ataturk, museo nazionale della repubblica di Turchia.
Il 27 dicembre dell’anno 537, fu il gran giorno della consacrazione della basilica. Davanti a tanta bellezza, l’imperatore Giustiniano non trattenne l’orgoglio di chi sapeva di poter parlare ai secoli: “Gloria a Dio che mi ha fatto degno di questo! Ti ho superato, oh Salomone!”. E ordinò quattordici giorni di festeggiamenti, che furono accompagnati da pubbliche elargizioni di denaro, feste, musiche e celebrazioni che coinvolsero tutti gli abitanti della grande città.
La cupola, costruita mille anni prima di quella di San Pietro a Roma, apparve come un prodigio di eleganza e di leggerezza: 30 metri di diametro e 56 di altezza, con la volta argentea, rivestita all’interno da migliaia di tessere di lucenti mosaici.
Forse Giustiniano quel giorno pensò a Costantino che per primo, nel vasto spazio poco lontano dal palazzo imperiale, volle costruire la prima cattedrale della sua nuova capitale. Ma non fece in tempo a vedere la fine dei lavori che aveva ordinato.
Fu il suo successore, Costanzo II, nel 360, a consacrare e ingrandire il tempio che divenne la chiesa episcopale di Costantinopoli. Poco dopo, la distrusse un incendio. Ma Teodosio II la riconsacrò nel 415. Fu di nuovo incendiata, con gravi danni, durante la rivolta di Nika.
Finché Giustiniano, nel 532, si impegnò a ricostruire una basilica nuova. Nei suoi sogni doveva essere la “più sontuosa dall’epoca della Creazione”. Riuscì nell’impresa: in soli 5 anni, il famoso architetto Isidoro di Mileto e il matematico e fisico Artemio di Tralle, assistiti dallo stesso imperatore, portarono a termine l’opera, per la quale fu necessario il lavoro di diecimila operai.
Preziosi materiali vennero raccolti in ogni parte del vasto impero: marmi verdi dalla Tessaglia, pietre nere dalla regione del Bosforo e grandi pietre gialle dalla Siria. Otto colonne di porfido giunsero dal Tempio di Giove Eliopolitano di Baalbek. Colonne di granito arrivarono dall’Egitto. E altre otto colonne ellenistiche furono trasportate dal tempio di Artemide di Efeso. I rossi mattoni di Rodi, composti da una argilla particolarmente leggera, servirono per costruire la spettacolare cupola. Ogni pezzo riportava la medesima scritta: “È Dio che l’ha fondata, Dio le recherà soccorso”.
Tanta fede serviva per le sacre incoronazioni dei reali bizantini e per ospitare degnamente la sede del patriarca ortodosso di Costantinopoli.
Ma le iscrizioni devote nulla potettero contro una serie di terremoti che indebolirono e lesionarono a più riprese la costruzione. Tanto che durante il sisma del 7 maggio 558, la cupola crollò e distrusse l’ambone, l’altare e il ciborio della cattedrale. Ci vollero altri cinque anni per riaprire la basilica al culto (563) e per ricostruire una cupola nuova, più leggera, più alta di 6 metri e protetta da massicce muraglie di sostegno.
Nei secoli, seguirono altri crolli e altre ricostruzioni. Fino agli anni della Quarta crociata e al saccheggio delle reliquie che il tempio subì nell’anno 1203: la Sacra Sindone, una pietra della tomba di Cristo, il latte della Vergine Maria e le ossa di numerosi santi vennero trafugate e abbellirono diverse cattedrali d’Europa.
Hagia Sophia fu trasformata in una chiesa cattolica fino alla “riconquista bizantina” del 1261. Ma il tempio era ormai gravemente danneggiato e fu chiuso dopo nuovi crolli a cui seguirono altri restauri.
Poi, per quasi cinquecento anni, la basilica diventò la grande moschea di Costantinopoli. Nel 1453 Maometto II promise ai suoi soldati tre giorni di libero saccheggio se la grande città, capitale dell’impero d’Oriente, fosse caduta. Il giorno stesso della capitolazione, le porte di Santa Sofia vennero abbattute. E il saccheggiò iniziò.
Lo interruppe il sultano che ordinò la trasformazione della chiesa in moschea. Quando uno degli ulama che era con lui, salì sul pulpito e iniziò a recitare la Shahada, nacque, di fatto, Aya Sofya. Il grande luogo di culto fu di nuovo restaurato. Scomparvero le croci, i mosaici parietali vennero intonacati e ai lati dell’edificio, negli anni successivi, furono costruiti, a più riprese, dei minareti.
Il patriarca si trasferì nella Chiesa dei Santi Apostoli.
Aya Sofya fu abbellita da due colossali colonne che nel XVI secolo il sultano Solimano il Magnifico (1520-1566) riportò dopo la conquista dell’Ungheria. Gli abbellimenti e i restauri continuarono per altri trecento anni, fino ai grandi lavori ordinati dal sultano Abdul Mejid I e completati in soli due anni, tra il 1847 e il 1849, sotto la direzione dell’architetto ticinese Gaspare Fossati, assistito dal fratello Giuseppe, ingegnere. La grande cupola e le volte vennero consolidate. Alle colonne furono appesi quattro giganteschi medaglioni circolari, che riportano i nomi di Allah, del profeta Maometto, dei suoi due nipoti e dei primi quattro califfi (Abu Bakr, Umar, Uthman e Ali). Gli antichi mosaici bizantini vennero scoperti e poi ricoperti con uno strato d’intonaco. E nuovi lampadari a goccia sostituirono le vecchie illuminazioni.
Il museo nazionale ricorda questa e altre vicende. Hagia Sophia è un sontuoso libro d’arte e di storia.
Le sue gigantesche proporzioni ne fanno uno dei monumenti dell‘architettura più importante di tutti i tempi. Nella pianta della grande basilica, come in un disegno divino, le figure geometriche del quadrato e del rettangolo si fondono in modo armonioso. La grandiosa innovazione, mai utilizzata in precedenza, dei quattro pennacchi che sostengono e innalzano la cupola, permette un passaggio elegante dalla forma quadrata della base dei piloni a quella sferica che sovrasta l’edificio, quasi a dominare lo spazio.
Lo sguardo corre verso l‘alto, dove tra le ombre e i chiaroscuri compare l’immagine dello stemma imperiale di Giustiniano.
Tra mosaici, marmi di pregio, pannelli, colonne in porfido e capitelli scolpiti, si arriva al grande vano della navata centrale.
Procopio di Cesarea, nel suo trattato “De aedificiis”, raccontò l’effetto mistico di una luce che sembra generata dalla basilica stessa: arriva filtrata, a ogni ora del giorno dalle quaranta finestre che costeggiano la cupola e dalle altre aperture disposte a livelli diversi sulle grandi pareti di Hagia Sophia.
Una luce che si riverbera sui mosaici dorati e sui preziosi paramenti. E che sembra quasi annullare la consistenza e il peso stesso delle strutture. Ma che nei secoli ha continuato a illuminare la chiesa ortodossa orientale, quella cattolica romana e il vasto mondo musulmano.
Federico Fioravanti

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